Quanto è difficile parlare di morte e perché farlo potrebbe migliorare le nostre vite.

May 22, 2023

“Is that you?” (sei davvero tu?)
“Of course it’s me!” (certo che sono io!)

Nella puntata “Torna da me” della fortunatissima serie Netflix “The black mirror”, una giovane Martha, alle prese con la morte del suo compagno e con la recente scoperta di essere incinta, decide di dare retta ad una sua amica che durante il funerale di Ash (il suo defunto compagno) le consiglia di iscriversi ad un programma nel quale potrà parlare con lui. “Non è lui, ma aiuta”.
La storia va avanti e Ash passa dall’essere semplicemente un messaggio in chat all’essere ricreato in carne ed ossa e ricominciare a vivere la storia interrotta con Martha. Fino a che… senza voler spoilerare troppo, questa nuova-vecchia relazione non finisce bene. 


Vivere e non morire mai (online)
La storia raccontata nella serie è qualcosa che oggi non riusciamo neanche ad immaginare come possibile. Eppure, per citare le parole di Davide Sisto, si calcola che oggi ci siano circa 50 milioni di profili di utenti deceduti su facebook che, se opportunamente gestiti da parenti e amici in vita o semplicemente ancora aperti perché nessuno si è occupato di chiuderli, continuano ad inviare notifiche alla propria rete, ricordandole le varie ricorrenze come compleanni, anniversari etc.
Ed è notizia abbastanza conosciuta quella di Alexa che potrebbe aiutarci a parlare con i defunti. “HereAfter” promette di intervistarti e raccogliere informazioni e dati sulla tua vita così che, quando un giorno morrai, la tua storia potrà diventare una chat con le persone che ami: basterà cliccare un bottone per parlare con te.

Parlare di morte è difficile. Affrontarla ancora di più.
Tra i tabù della nostra società, quello della morte è forse uno dei più forti e sentiti.
Un po’ come in Fight Club. Prima regola del Fight Club: non si parla del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non dovete mai parlare del Fight Club.
È lo stesso. Di morte non se ne parla.

Una manager che stimo molto una volta mi ha detto che in azienda parlare di morte non è considerato politically correct.

I motivi si comprendono:
ansia, senso di inadeguatezza e imbarazzo, incapacità di capire cosa dire, paura di ferire, defocalizzazione rispetto a quello che succede di bello nella propria vita, terrore perfino.

Sono solo alcune delle cose che succedono quando si parla o si pensa alla morte. Tutte cose umane, ovviamente, ma che nascondono un problema: e se dovesse toccare a noi o ad una persona a noi cara?

I problemi nascono qui, quando quelle sensazioni, quelle emozioni, quelle cognizioni non potremo più evitarle.
Allora ci perdiamo.

Scrive Sharyl Sandberg nel libro Option B:
Mi trovavo in una sorta di vuoto: un'enorme nulla che ti intasa il cuore e i polmoni e che limita la tua capacità di pensare e perfino di respirare. Il lutto è un compagno esigente. In quei primi giorni, settimane e mesi era sempre lì, non sotto la superficie, ma sopra. Ribolliva, si intensificava, e non se ne andava. Poi, proprio come un’onda, si sollevava dentro di me e si abbatteva, quasi volesse strapparmi via il cuore. Sentivo allora di non riuscire più a sopportare quel dolore, nemmeno per un minuto, tantomeno per un’altra ora.
La vita era diventata un campo minato


Il silenzio non è la strategia migliore

C’è stato un tempo non lontano dove, quando le persone partecipavano ad un funerale, era quasi sicuramente quello di un bambino che non aveva ancora compiuto 5 anni. O di un ragazzo che ne aveva appena 16.
Era la fine del secolo scorso e le persone vivevano quotidianamente l’esperienza di essere umani con una scadenza. Ma non la vivevano in maniera disperata: dolorosa, semmai, ma inevitabilmente legata alla vita.
L’inversione di questa tendenza demografica, quella in cui i giovani morivano spesso prima delle persone anziane, si è avuta dopo la seconda guerra mondiale e proporzionalmente alla crescita dell’aspettativa di vita è cresciuta in noi la paura della morte.
Tutto questo ha portato, per parafrasare le parole del dott. Stefano Manera, a considerare la morte quasi come se fosse un evento estraneo alla vita.
“La morte oggi è diventata medicalizzata, innaturale, innominabile e pornografica.
Oggi nascondiamo la morte e raccontiamo che la mamma o il nonno sono partiti per un lungo viaggio.
Moriamo nascosti, segregati in ospedale o in istituti, lontani dalla vista, perché la morte è brutta, ripugnante, vergognosa.
La morte è nascosta persino allo stesso morente che però sa e capisce e si trova pertanto in una condizione di smarrimento e disperazione.”
E per la proprietà transitiva abbiamo coperto di segreto anche gli argomenti ad essa collegati come il lutto, il dolore, la malattia e l’invecchiamento.
Come nelle migliori profezie che si autoavverano, abbiamo creato una società nella quale la paura della morte genera una morte piena di paura.

Ma questa non è l’unica strada: le cose che possono succedere, se iniziamo a considerare la morte come un evento che fa parte delle nostre vite, sono tante. Una fra tutte: trasformare quell’esperienza in risorsa

La crescita post traumatica

Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, due professori dell’università della Caroline del Nord, si sono dedicati per tanto tempo a genitori che stavano vivendo una situazione di lutto per la morte di un proprio figlio. Quello che hanno osservato è che, oltre alle due reazioni più diffuse in situazioni come questa (stress post-traumatico, ansia, depressione etc. da una parte e capacità di tornare alla vita di prima grazie alla propria resilienza dall’altra), c’è una terza reazione possibile che riguarda la nostra capacità di fare un salto in avanti. L’hanno chiamata crescita post-traumatica definendola, in una frase, così: «Sono più vulnerabile di quanto pensassi, ma molto più forte di quanto avrei mai immaginato».

La crescita post-traumatica è, in altre parole, la nostra possibilità di farcela.

3 storie di crescita post-traumatica

1 storia. “Quattro giorni dopo il suo arrivo, Ali accusò forti dolori al ventre e venne ricoverato. I medici dell’ospedale prescrissero un’appendicectomia. Era un intervento di routine, perciò io non ero preoccupato. (...) In sala operatoria, l’equipe iniettò a mio figlio anidride carbonica per espandere la cavità addominale e liberare lo spazio necessario all’operazione. Ma l’ago della siringa fu spinto troppo in profondità e perforò l’arteria femorale (...) nel giro di poche ore il mio amatissimo figlio non c’era più.
La morte improvvisa di Ali sprofondò me, sua madre e sua sorella nel lutto. Il dolore della sua assenza dura ancora oggi, e ci capita regolarmente di scoppiare a piangere per l’impossibilità di riabbracciarlo, chiacchierare con lui o sfidarlo a un videogioco (...) E tuttavia siamo riusciti a conservare un incredibile senso di pace - persino di felicità. Certo, capitano le giornate no, ma non siamo persone tristi. I nostri cuori sono appagati, addirittura gioiosi.

Diciasette giorni dopo la morte di Ali ho cominciato a scrivere e non sono più riuscito a smettere. Scrivevo della felicità.


Mo Gawdat, autore di L'equazione della felicità, founder di One Billion Happy e Unstressable

2 storia. “I am camping out to raise money for North Devon Hospice because they looked after our lovely friends”
(Campeggio per raccogliere soldi per l’Hospice di North Devon perché si prendono cura dei nostri amici”.)
Prima di morire, Rick decise di regalare a Max Woosey,  il suo piccolo amico di famiglia (al momento in cui scrivo, dodicenne) la sua tenda da campeggio, facendogli promettere di vivere una bella avventura. Rick era in cura al North Devon Hospice, nel quale aveva trovato cure e conforto e grazie al quale aveva potuto passare i suoi ultimi attimi di vita a casa, in compagnia dei suoi cari.
Max decise di mantenere quella promessa e dal 29 marzo 2020 ad oggi (gennaio 2023) non ha mai smesso di campeggiare. Il suo obiettivo? Raccogliere fondi per quell’hospice che aveva permesso al suo amico di morire dignitosamente, amorevolmente e a casa, vicino alle persone a cui voleva bene. 
(Qui puoi leggere una parte della sua storia e, se ti fa piacere, contribuire alla causa di Max https://maxsbigcampout.justgiving.com/)
Ad oggi Max è riuscito a raccogliere circa £608,886, passare 1000 notti in tenda (il 24 dicembre 2022 ha festeggiato questo bel traguardo) e collezionare attestati di stima e interviste da parte di associazioni e media, sensibili alla sua sfida.



Foto tratta dal profilo instragram The boy in the tent di Max Woosey,

3 storia. “Non dovresti tenerle per te queste cose. Dovresti farle conoscere alla gente, condividerle”, aveva detto la sua unica figlia Sara a Nicola, il papà, che da quando l’ha salutata per l’ultima volta cammina, organizzando trekking gratuiti alla scoperta della zona di Cassano delle Murge, in Puglia.

Foto tratta dal profilo instagram di La repubblica

Non è (così) facile ma non dobbiamo aspettare per forza la crescita post-traumatica.

Queste storie sono a lieto fine, e per ognuna di loro ce n’è sicuramente una miriade che non sono andate così. Non è (così) facile ma non dobbiamo per forza aspettare di verificare se saremmo una di quelle persone che, invece che uno stress post-traumatico, sperimenteranno una crescita post-traumatica. La possibilità di incappare in un evento doloroso, dal momento in cui nasciamo, è altissima, inutile nasconderlo. Se siamo fortunati, questo evento doloroso per un bel po’ di tempo non sarà la morte di qualcuno che amiamo tanto. Però dobbiamo essere coscienti che potrebbe accadere: non come un’ossessione gravosa che ci impedisce di vivere le giornate sperimentando anche le loro versioni migliori. Più come una consapevolezza profonda in grado di guidarci a creare il mondo (per noi stessi e per gli altri) che veramente vogliamo.

D’altronde: ha mai funzionato fare finta di niente?

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